giovedì 20 marzo 2008

Introduzione al libro.


Quando a qualcuno ho riferito il titolo di questo racconto, mi hanno subito domandato: Come mai hai deciso di chiamarlo “La terra dell’odio”? M’hanno fatto così osservare che viviamo in un bel territorio che c’invidiano in tutta la penisola, meta di migliaia di turisti. M’hanno spiegato che abbiamo delle splendide spiagge, che la gente è ospitale, che la cucina è ottima, insomma, m’hanno decantato le meraviglie dell’Ogliastra, che per altro conosco già e talvolta descrivo nello stesso libro. La domanda, tuttavia, resta: perché questo titolo? A questo quesito non so rispondere, se non scomodando uno dei più importanti poeti della letteratura mondiale. Una famosa e bella poesia di Pablo Neruda s’intitola “Spiego alcune cose.” Questa è stata scritta durante la Guerra Civile in Spagna, quando il temibile esercito del generale Franco, con l’appoggio criminale dei nazifascisti, bombardava ed assaltava i villaggi e le splendide città spagnole causando decine e decine di morti. All’inizio della sua poesia Neruda s’immedesima nei lettori, che gli domandano perché nei suoi versi non parla dei fiori o, magari, della bellezza della stessa Spagna. La sua risposta conclusiva è questa:


venite a vedere il sangue per le strade, venite a vedere il sangue per le strade, venite a vedere il sangue per le strade!


M’è parso di poter cogliere questo personalissimo significato: è faticoso parlare della bellezza delle cose che ti circondano, quando intorno a te c’è qualcosa che t’opprime, ed inaridisce la tua vena letteraria (nel caso di Neruda erano i morti, od i fiumi di sangue che vedeva scorrere nelle strade della sua città).Allo stesso modo, avrei potuto intitolare questo romanzo “La terra delle meraviglie, La terra del riscatto, La terra del vino” etc… A me, tuttavia, occorreva parlare d’altre cose. Certo, avete senz’altro tutte le ragioni di questo mondo, avrei potuto parlare del mare, oppure dei tacchi calcarei che s’elevano imperiosi alle spalle dei paesi. Avrei potuto parlare delle tante bellezze archeologiche di questa terra meravigliosa, avrei potuto parlarvi delle valli che s’aprono improvvise tra le montagne, avrei potuto parlarvi del coraggio di tante persone, piegate dalla fatica o dal trascorrere inesorabile degli anni. Avrei potuto parlare di tutte queste cose ma anch’io, ribadisco, ho il medesimo problema del grande Neruda.


Quando ero piccolo (avrò avuto all’incirca otto o nove anni) un evento scardinò la tranquillità del paese in cui vivevo. Durante la notte un potente ordigno distrusse la casa dell’allora Sindaco Piero Carta, oggi Presidente della Provincia dell’Ogliastra. Insieme ai miei amici andai a vedere cos’era accaduto, e mi trovai dinanzi ad uno spettacolo spaventoso. La casa aveva subito dei danni incalcolabili, i Carabinieri s’affrettavano a mettere a posto i propri attrezzi, i compaesani s’accalcavano per vedere cos’era accaduto. Vetri frantumati, calcinacci per la strada, confusione. Non potevamo capire i motivi di quell’evento drammatico, ma anche s’eravamo solo dei bambini comprendevamo che era successo qualcosa di terribile…Ricordo come se fosse soltanto ieri l’appuntamento nella Piazza Regaliu, quella stessa piazza in cui in tanti ci vedevamo per organizzare delle interminabili sfide a pallone. Le saracinesche dei negozi era rigorosamente abbassate, in segno di lutto. Sul palco (nel periodo si celebrava di certo una festa religiosa) c’erano il Sindaco ed altre autorità. La cosa che più mi colpì, tuttavia, era l’atmosfera carica di tristezza e di sgomento, i visi cinerei dei miei compaesani, il silenzio plumbeo che avvolgeva interamente quell’insieme di persone.Col trascorrere degli anni sono cresciuto, ed ho capito il motivo per cui avvengono simili eventi. Ho visto la porta del mio Comune più volte divelta dalle cariche di tritolo, sui giornali ho letto d’omicidi inspiegabili, spesso ai danni di giovani, oppure di sparizioni ancora più oscure. Ho visto Comuni per lungo tempo commissariati ed amministratori che, nonostante le minacce, sono andati avanti nel loro mandato sfidando le bombe, i pallettoni, o l’incendio delle proprie abitazioni. Mentre scrivo queste righe (oggi è il 30 Dicembre 2007) la Sardegna piange la scomparsa del compagno Peppino Marotto, barbaramente assassinato nel suo paese natio, per cui si è speso durante tutta la sua esistenza. Marotto è stato protagonista di numerose battaglie di giustizia sociale (tra l’altro, partecipò alla ribellione di Pratobello) e i suoi versi campeggiano nei bellissimi murales famosi in tutto il mondo. Quest’omicidio, ad ogni modo, non è altro che uno dei tanti fatti che sconvolgono questa povera terra. Pochi giorni fa, per esempio, un ex Sindaco di Jerzu, Luciano Mereu, s’è visto “recapitare” una bomba proprio alla vigilia del Natale. Per crimini come questi che ho citato (ma ne potrei riportare decine), ho deciso d’intitolare questo libro “La terra dell’odio”.


Nonostante il titolo, che riflette alcune vicende narrate nel libro, ho pensato di raccontare “l’esistere” in uno dei tanti paesi della Sardegna. A chi lo leggerà, potrà sembrare che lo svolgersi degli eventi abbia un unico teatro. In realtà, non è così. Alcuni luoghi sono senz’altro ben individuabili, ma gli eventi, le situazioni descritte, le caratteristiche degli abitanti, sono proprie di tante Comunità della Sardegna, che come ho poc’anzi detto, in un modo o nell’altro si rassomigliano tutte.Benché ci siano delle ovvie specificità, ogni paese dell’interno Sardo ha dei tratti comuni, che li rendono simili tanto negli aspetti positivi quanto in quelli negativi. Si, perché le Comunità della nostra isola sono dei piccoli mondi dove s’elaborano delle regole a cui tutti devono attenersi. Nel paese non esiste l’indifferenza della città: il paese t’osserva, ti giudica, afferma quali sono i comportamenti corretti oppure quelli sbagliati: un giudizio che non ha nulla a che vedere con le norme del diritto civile (o penale) a cui siamo avvezzi. Chi non si attiene a queste regole, codificate negli anni se non nei secoli, è considerato un eccentrico, e talvolta è messo da parte. Chi può avere gusti o sensibilità particolari può essere additato con scherno: la legge del branco, da che mondo e mondo, opera anche nella nostra terra. Salvatore, il ragazzo protagonista di questa storia, s’accorge d’essere prigioniero di queste regole, e cerca di spezzare le proprie catene mentali anche grazie alle parole del suo amico Giuseppe, che cerca d’introdurlo ad una mentalità pacifica che va al di là dei miti della balentia. Queste catene, tuttavia, sono robuste e difficili da rompere, perché quando taluni “schemi” fanno parte del tuo modo di pensare (e del tuo bagaglio culturale) non è semplice individuare e praticare nuovi modelli di comportamento. Crescere in un paese è come crescere in una grande famiglia, ti adegui al giudizio dei tuoi compaesani anche perché loro sono le persone che stimi, e di cui vorresti il rispetto. Agisci secondo regole che non t’appartengono, e spesso lo fai senza domandarti la ragione.La storia s’evolve in una piccola comunità ogliastrina, ed i protagonisti devono far fronte a nuovi ed antichi problemi della nostra isola. La mancanza strutturale di lavoro, con la relativa necessità d’emigrare all’inseguimento d’una speranza, la speculazione edilizia, che rischia di cancellare un patrimonio naturalistico d’immenso valore, una violenza sistematica sull’ambiente e sugli uomini. Al di là di tutto questo, questa è sopratutto la storia di ragazzi normali (sul concetto di normalità, poi, si potrebbe aprire un dibattito), che hanno voglia di vivere, amare, conoscere e discutere. Dunque, pur intrecciato alle singole esperienze del panorama politico e sociale dei nostri giorni, il romanzo narra della vita di questi giovani che ho forse conosciuto, che tra un divertimento e l’altro (od un problema e l’altro), si ritrovano a crescere insieme, e ad affrontare insieme drammi e sogni. Questo libro non contiene un messaggio preciso, forse vuole essere un invito all’emancipazione, alla libertà e alla rottura di schemi precostituiti. Non può essere né la mentalità d’un paese, né una religione, né una famiglia o un’ideologia ad indicarci come dobbiamo pensare, e come dobbiamo agire. Noi e noi soltanto possiamo individuare e scegliere le regole in cui vogliamo credere.


Con affetto


Vincenzo Maria D'Ascanio.

Prefazione di Marcello Piroddi.


La Terra dell’odio, l’ultima fatica letteraria di Vincenzo D’Ascanio, è proprio un bel romanzo. Lo apri e parte il racconto per immagini, suggestioni probabilmente autobiografiche, ricordi che si miscelano alla fantasia, un gomitolo che si srotola pian piano, attraverso un percorso coerente e fluido.Sinceramente carico di amore per il proprio paese, mette a nudo quel legame forte ed indissolubile con la propria terra, le radici che diventano sempre più forti quanto più si è distanti dalle proprie origini.Sullo sfondo di un racconto che non è, né vuole essere, politico o sociologico, vi è il nostro paese, i nostri paesi, la nostra realtà. Quel complesso, articolato, contradditorio ed affascinante intreccio che sono le nostre comunità. I microcosmi, non le realtà metropolitane talvolta omologanti e totalizzanti, ma il lento scorrere del tempo scandito dalla quotidianità, dai profumi e colori della vita reale ancora non intrappolata nella rete virtuale e alienante di internet.Da pubblico amministratore non posso fare a meno di notare che viene anche affrontato il tema della sicurezza. La bomba che irrompe e drammaticamente spezza il silenzio gioioso di una notte di festa, uno squarcio dolorosamente profondo nelle nostre coscienze. L’esplosione di una bomba che ci riporta alla mente quanto è difficile e rischioso, talvolta, amministrare le nostre realtà.Da politico (mi spiace, ci ricasco sempre!) e da Sindaco non posso fare a meno di evidenziare che la difficoltà di amministrare i nostri paesi non discende dalla “paura”. La bomba non è solo quella che si fabbrica con la polvere da sparo. Le bombe sono anche le riprovevoli testimonianze di una “certa politica” miope e distruttiva che, perseguendo solo interessi particolari e “partito-lari”, impedisce alle nostre comunità di realizzare appieno le proprie potenzialità, di svilupparsi armoniosamente, di crescere camminando insieme.Ritorniamo al libro. Esso è un racconto generazionale. Sono pagine, dunque, nelle quali non si legge semplicemente una storia individuale o di un gruppo di amici ma quella di una generazione e di una fase della vita.Mi hanno favorevolmente colpito le pagine dedicate alla crescita personale e collettiva che è quella di tutti i giovani di allora. La scoperta della vita, i primi incerti sentimenti, i tabù da infrangere, i luoghi comuni e i pregiudizi, la ritualità e le trasgressioni, l’estate come stagione-crocevia, le paure e i desideri, la musica e le letture, la famiglia e il bar, insomma le cose normali che si fanno a quell’età.Ma anche il “sogno” di un lavoro stabile, il dramma dell’emigrazione, la precarietà come tratto distintivo di una generazione che per la prima volta nel dopoguerra vivrà peggio dei propri genitori. Insomma un romanzo vero, si direbbe neo-neorealista. La vita mostrata nella sua complessa ed indecifrabile misteriosità ma anche nella sua più cruda e misera realtà.Riguardare il proprio passato non significa solo riappropriarsi di emozioni e ancor meno rifugiarsi in artificiali voli nostalgici o puerili sentimentalismi ma significa coltivare il futuro. Avere il coraggio di raccontarlo, pur stemperandolo in un romanzo, significa donarlo anche agli altri.Vincenzo D’Ascanio è già bravo e crescerà ancora. Non gli mancano talento, coraggio, abnegazione, determinazione e passione. Non sono solito dare consigli ma gli suggerisco di seguire sempre se stesso, i suoi desideri, le sue aspirazioni e le sue ambizioni. In realtà credo che lo stia già facendo. Allora permettetemi di augurargli di realizzarli, se lo merita.

Jerzu, 15 Marzo 2007Marcello Piroddi- Sindaco di Jerzu

La cultura della vendetta


Salvatore rifletté sui tanti episodi di violenza che aveva visto o sentito raccontare nel suo piccolo paese. Aveva ascoltato tante storie brutali, molte delle quali gli erano state narrate da suo nonno e dai suoi vecchi zii come se fossero delle gioiose favole. In queste zone molti banditi del passato sono ricordati con profondo rispetto, ed esaltati per il loro coraggio. Le gesta di fuorilegge senza scrupoli sono descritte in svariati libri, che possono essere comprati in qualunque libreria dell’isola. Le loro efferate gesta sono decantate come Omero lodava quelle d’Ulisse.
In una terra come questa, isolata e sfruttata per secoli, il saper rispondere adeguatamente ad un’offesa è considerato come qualcosa di sacro, e guai a chi volta le spalle alle provocazioni. Forse le ragioni di questa “cultura della vendetta” sono legate all’abbandono dell’isola da parte dello Stato, che durante i secoli è stata selvaggiamente deturpata dagli invasori. Alle istituzioni, così, si è inevitabilmente sostituita la giustizia privata, secondo una versione ampiamente ripetuta dagli esperti criminologi. Questa arcaica subcultura è giunta sino ai giorni nostri, anche se il benessere, l’informazione e l’istruzione ne hanno mitigato gli impatti sociali. In una buona parte della popolazione delle zone interne, tuttavia, ne sono evidenti le ripercussioni, che ancora condizionano sotto diversi aspetti le piccole comunità.

Ma mentalità paesana.


La sua curiosità, è bene sottolinearlo, era tipica degli abitanti del piccolo paese. Quasi ogni paesano, infatti, avverte la sinistra necessità di sapere con chi si trova a contatto, e molte volte la vita di ciascuno è sondata dagli altri con precisione quasi maniacale. Una conseguenza di questa particolare tendenza era che nel paese ci si conosceva praticamente tutti e, si sa, le persone non sapendo di che accidenti parlare (o sparlare) discutono appassionatamente della nuova coppia d’innamorati, della potente macchina del parroco, della lite scoppiata tra comari e d'altre mille cosette di questo tipo. Tutti sono pronti a parlare e a dire qualsiasi diavoleria sul conto dell’altro, ma quando la sorte vuole che siano loro ad essere bersagli dalle malignità, allora si è soliti mostrare alterati la propria indignazione verso il non rispetto del sacro valore della privacy…
Qualcuno sostiene che comportamenti di questo tipo sono altresì necessari perché una persona riesce, in tal modo, a comprendere quali sono le condotte accettate nella comunità in cui vive. Su questa eventualità sono abbastanza scettico, perché considero la specie umana assai diversa dalle pecore, anche se i fatti concreti mi hanno più volte smentito… Il paese di cui vi parlo è un buon esempio di ciò che dico. Nel piccolo borgo ogliastrino le voci popolari avevano inventato una quantità spropositata d’amanti e dunque di figli presunti, di possibili e macabri assassini, di maghi e furfanti. Per queste “vittime della lingua”, a cui era spesso appioppato anche un soprannome, non restava che adeguarsi al fatto che i loro figli ereditassero, tra le altre cose, anche i buffi e poco edificanti nomignoli.
Salvatore, Franco e Battista, validi esponenti di questa discutibile cultura paesana, rimasero così a parlare o sparlare delle varie persone che vedevano passare dinanzi a loro, dimenticandosi di tutto ciò che avevano visto durante la giornata, scordandosi di parlare dei loro dubbi, dei loro presentimenti e, magari, di cosa s’aspettavano dall’incerto avvenire. Dimenticarono inoltre di contemplare il rossore del cielo che, oltre ad essere uno spettacolo sempre pregevole, annunciava il silenzioso morire della giornata. Dalla piazza si poteva ammirare la grande collina che dominava la valle coi suoi campi coltivati, i suoi boschi e le cicatrici dei tanti incendi scoppiati nel corso degli anni. Per una qualche terribile ragione in quel territorio, come in tutta la Sardegna, durante le Estati erano appiccati sempre due o tre incendi i cui tremendi segni potevano notarsi anche dopo molti anni.

martedì 11 marzo 2008

Avevano il loro bosco.




Non appena tutti e tre furono sulla vettura s’accesero una sigaretta, e s’avviarono verso il bosco con l’autoradio a tutto volume. Proprio Franco propose agli altri d’andare nel bosco di leccio vicino al campo sportivo, e gli amici accettarono di buon grado. Giunsero rapidamente sul posto e, dato che da diverso tempo non vi andavano, furono sommersi da una marea di ricordi. Quando erano bambini, infatti, percorrevano insieme quelle strette stradine tra le rocce, immaginando di vivere epiche avventure. Avevano costruito delle casette di legno sopra e sotto diversi alberi, in cui vi andavano durante i loro irrequieti anni scolastici per sfuggire alla noia delle lezioni e dei professori. Una di queste piccole strutture in legno si trovava proprio sull’orlo di un pericoloso precipizio. Dato che si trattava della più grande casetta che avevano costruito, decisero d’andare là. Per arrivarvi passarono per uno stretto sentiero tra i cespugli, e rividero tutti quei luoghi che durante la loro infanzia erano stati teatro di passatempi e battaglie. Ammirarono la grande pianta forata nel mezzo, che quando giocavano a nascondino diventava il luogo in cui dovevano stare coloro che erano stati scoperti. Videro con piacere anche l’inquietante grotta e le grandi pietre lisce su cui s’adagiavano per abbronzarsi, o magari organizzare tutti insieme qualche audace bravata.
La casetta era stata costruita quando frequentavano ancora le scuole medie, aprendo con difficoltà uno spazio tra i rami e innalzando dei bassi muretti con le pietre. Nel mezzo dello spiazzo, proprio tra i muretti, erano stati posti tre grandi massi che fungevano come sedie di un rustico salotto. Su queste pietre c’erano alcune scritte, forse di qualche solitario ragazzino che là aveva trovato un posto tranquillo dove andare. A parte questo particolare, poco era cambiato durante gli anni. L’unica nota stonata era una strada edificata qualche anno prima, che tagliava a metà quella bella parte del “loro” bosco. Per fortuna lo scempio era distante qualche centinaio di metri dal luogo in cui ora si trovavano… Quell’angolo della loro infanzia s’era fortunatamente salvato.
Qualche metro più in là, proprio sull’orlo del precipizio, c’era una piccola terrazza naturale. Da quel punto si potevano ammirare l’intera valle, e l’azzurra striscia del mare. La sera, quando erano bambini, dopo aver trascorso tutto il pomeriggio a zappare e lavorare, spesso si fermavano in silenzio a guardare quello spettacolo completamente esausti… I tre ragazzi si sedettero, e si rividero nuovamente intenti a trasportare una pietra o a scavare qualche inutile fosso. Era passato molto tempo ma i ricordi erano ben chiari nelle loro menti. S’accesero una sigaretta e parlarono delle memorie comuni, deridendosi per ciò che avevano detto o fatto.

giovedì 24 gennaio 2008

La prima pagina


Non saprei spiegare, a chi me lo dovesse domandare, le ragioni per cui ho deciso di raccontare questa storia. Uno dei motivi è farvi conoscere l’esperienza di quattro miei amici, e parlarvi di una serie d’episodi che non ho mai confessato nemmeno alle persone più fidate. Il racconto ha come teatro un piccolo paese della Sardegna, il mio paese. Questo si trova negli irregolari e misteriosi territori dell’Ogliastra, una zona isolata e selvaggia, che s’estende su buona parte della costa orientale per arrivare sino agli interni territori dell’isola.
Da quel paesetto arrampicato sulle colline manco da un po’ di tempo e vi ritorno di tanto in tanto, per rimanervi soltanto pochi giorni. Per diverse ragioni ora vivo in città, lontano dai boschi e dalle montagne, dalle piazze in cui giocavo da bambino a pallone, dalle strette e tortuose stradine, dalla vista del mare dal balcone di casa e dall’antico colore delle vigne in Autunno. Questa lontananza, ad ogni modo, ha reso ancora più importanti i momenti che ora trascorro a casa, e tutto ciò che mi circonda m’appare più bello di quando vi vivevo regolarmente. In questi periodi faccio delle lunghe passeggiate, rivivendo con la memoria tutti i ricordi che riposano nella mia coscienza. Ho tenuto nascosta la storia dei miei quattro compaesani per troppo tempo, e ritengo sia arrivato il momento di parlarne. Portarsi certi pesi a lungo non fa bene, anche se talvolta qualche verità può risultare scomoda.
Quell’anno in Sardegna c’era stata una Primavera torrida, quasi senza precedenti. Presidente e Consiglio regionale avevano chiesto lo stato di calamità naturale al Governo. Il caldo aveva causato dei gravi problemi all’agricoltura e procurato dei seri danni ai contadini, che si riunivano frequentemente a Cagliari per manifestare il proprio malcontento. Quelli non erano anni facili per chi viveva in Sardegna. La siccità imperversava impietosa sulla popolazione, oltre che sul bestiame e sulle coltivazioni. La crisi delle campagne aveva costretto tanti giovani ad emigrare, perché non si riuscivano più a trovare le già scarse “giornate” di lavoro, ovviamente “in nero”. C’erano altre persone, tuttavia, che non avevano intenzione d’andarsene, anche perché non avevano altro posto dove andare.

Il periodo del Catechismo.

Quando Salvatore aveva quasi sette anni, il Sabato sera la madre lo portava in Chiesa con la sua centoventisette rossa. Si fermavamo prima a prendere la zia, poi andavano a rivolgere una preghiera al Signore insieme a tante altre donne anziane, eternamente vestite di nero. Salvatore s’annoiava per gran parte della celebrazione ma non quando si trattava di cantare, cosa che faceva con impegno ed impetuosa passione. Il suo canto preferito era “Nella casa del Signore” e qualche volta, dopo averlo intonato a voce altissima, la madre e molte di quelle signore erano solite fargli i complimenti. Finita la funzione era gentilmente accarezzato da decine di mani, mentre la madre chiacchierava con i parenti in una lingua misteriosa. Dopo i convenevoli salivano nuovamente sulla centoventisette, per fare le consuete fermate nell’asettica farmacia e al piccolo negozio di zia Assunta per la spesa.
Il periodo del catechismo per Salvatore fu piuttosto frustrante. Oltre a non comprendere i passi del Vangelo, (ad ogni modo, non si sforzava minimamente di farlo…), non sopportava la brutale autorità delle catechiste, che lo trattavano quasi sempre con durezza. Certo, lui aveva la sua parte di colpe, essendo sempre stato un bambino che mal sopportava gli ordini, in particolare quello del silenzio. Le catechiste talvolta lo picchiavano, e ciò non faceva che aumentare il suo cieco rancore per quel posto.
I bei ricordi di quelle ore erano legati alle partite di calcio che lui e i suoi compagni organizzavano nel vicino campetto dell’oratorio. Questo era più che altro un rettangolo di cemento ai cui lati stavano due sgangherate porte in ferro, ma che a quei bambini bastavano per divertirsi prima e dopo il catechismo. Se la lezione era alle quattro del pomeriggio, loro giungevano là alle due e qualche volta ci restavano anche dopo l’inizio della lezione. Spesso, se la partita era particolarmente avvincente, continuavano a giocare sino a quando l’insegnante non li “convinceva” con imprecazioni e la bruta forza delle minacce…

lunedì 21 gennaio 2008

La festa del Santo

Arrivata in piazza, la comitiva s’accorse che questa era quasi piena. Dagli altri paesi, tuttavia, erano giunte soltanto poche persone, forse perché tutti aspettavano la più interessante serata del sabato. La gente passeggiava in diverse zone della località, dalla rotonda piazzetta in cemento armato sino all’antica Chiesa campestre, tenuta aperta e ben illuminata per permettere ai ritardatari di rivolgere le loro preghiere al Santo.
Nelle vecchie case in pietra, un tempo abitazione di pastori o rifugio di banditi, erano stati allestiti i bar. I tavolini e le sedie erano già stati occupati dai clienti che, coi bicchieri colmi di vino o birra, erano illuminati dalla calda luce delle lampadine elettriche. Intanto sul palco si preparava l’esibizione dei “tenores” e tutto era quasi pronto. “Su comitadu pro su Santu” (3) si dava un gran da fare, perché ogni suo membro era ben consapevole dell’importanza del proprio incarico, molto rispettato nel paese.
Le bancarelle erano molte e di svariati tipi. C’erano quelle in cui si vendevano torrone e dolci, quelle di giocattoli, di cassette musicali (qualcuna, per la verità, abbastanza “datata”) e quelle dove si potevano vincere dei pupazzi di varie grandezze grazie a dei giochi d’abilità. I padroni di questi piccoli esercizi arrivavano dai paesi della Barbagia, della Baronia e da altri luoghi distanti anche molti chilometri.
I ragazzi andarono verso il bar più vicino alla piazza, e occuparono uno dei tavolini posti all’esterno di una delle antiche case in pietra. All’interno stavano diverse persone e tra queste Salvatore notò anche Franco e Giovanni, che discutevano animatamente insieme a Gianni, il robusto padrone del bar. Mentre Giuseppe, Attilio e tutti gli altri continuavano a divertirsi raccontandosi le loro vecchie vicende, Salvatore guardava di soppiatto Franco, che appoggiato al bancone aveva assunto un atteggiamento deciso e spavaldo. Quanto gli sembrava diverso ora il suo vecchio amico… Pareva più serio e maturo, quasi invecchiato, con quel suo nuovo e strano atteggiamento. Senza capirne la ragione, l’osservarlo dava a Salvatore una singolare impressione, che lui stesso non riusciva a spiegarsi. I due all’improvviso si guardarono negli occhi ed entrambi non poterono fare a meno di sorridersi vicendevolmente, forse memori in quella frazione di secondo dei tanti bei ricordi che condividevano. Franco con un gesto della mano invitò Salvatore ad avvicinarsi ed egli, prima di farlo, avvisò gli altri che sarebbe restato al bancone per qualche minuto.

Il bar del paese

Questo bar, che si trovava nella via principale del paese, era stato un luogo d’incontro per i ragazzi d’ogni età. In tanti possono dire d’esserci cresciuti, nel bel mezzo della sua oscurità, del suo fumo e dei suoi videogiochi. Zia Rosetta era una signora sulla settantina, ma a condurre il bar erano principalmente i suoi tre bruschi figli: Mario, Antonio e Giovanni. Quando Salvatore era più piccolo, come tanti altri bambini era attratto dai videogiochi che stavano nella piccola stanza nel retro del locale. Poiché ogni partita costava duecento oppure trecento lire, i ragazzini potevano permettersi di restare tutta la sera a giocare con pochi spiccioli. Tante volte la madre di Salvatore, convinta di mandarlo alla Santa Messa della Domenica mattina, gli dava la paghetta settimanale. Il bambino la ringraziava, la salutava, poi con passo sempre più rapido s’affrettava non alla Messa, ma piuttosto nell’inquietante sala videogiochi del bar. Inizialmente non vi trovava nessuno, poi col passare delle ore la sala cominciava a riempirsi sempre di più, e in un solo gioco si potevano contare talvolta sei o sette ragazzini che con agitazione seguivano le avventure virtuali di qualche loro amico.
Soltanto con approssimazione Salvatore potrebbe calcolare le somme che in tanti lasciarono in quelle macchine, ma ricorda con malinconia i numerosi videogiochi in cui fu protagonista indiscusso. Dal primo, un gioco del calcio in cui gli atleti erano degli strani robot che sputavano fuoco (?), sino a quelli che avevano come protagonisti dei cavalieri o quelli di formula uno, tutti in un modo o nell’altro l’avevano trasportato in altri mondi, in quei interminabili pomeriggi domenicali. Una sensazione simile il giovane manovale la provava soltanto per i vecchi cartoni animati. Quello di Salvatore è un sentimento che accompagna la mia generazione, divisa tra i vecchi giochi dei nonni e i moderni divertimenti supertecnologici.
Una delle cose più buffe è che tra i ragazzini si spargevano continuamente le voci di grandissime imprese, e per qualche tempo i bravi giocatori erano considerati quasi come degli autentici eroi. Tutto ciò sarebbe durato sino a quando qualcuno non batteva il loro primato, che poteva durare anche diverse settimane.
Ora quella piccola sala, in cui in tanti impararono loro malgrado anche le dure leggi della strada, non esiste più perché la struttura del bar è stata rivoluzionata. Nel bar di zia Rosetta c’è un piccolo palchetto, dove ci sono ancora dei videogiochi. Tutto è sicuramente più bello, e i padri possono guardare giocare i loro figli sin dalla porta del bar. Salvatore, tuttavia, era ancora affezionato a quella piccola e fumosa saletta nascosta nel retro. Quello era un mondo parallelo, in cui erano ammessi soltanto coloro che riuscivano a strappare il diritto di starci a suon di calci e schiaffoni.

mercoledì 9 gennaio 2008

Per chi parte dal paese


Salvatore pensò che Pietro non aveva tutti i torti. Prima di trovare un’occupazione, anche lui aveva pensato di partire per chissà quale destinazione, perché sapeva che non poteva restare a casa dei genitori con le mani in mano. S’era accorto di quanto fosse terribilmente complicato trovare un qualsiasi impiego, e cosa significasse vivere con quel pesante senso d’inutilità. Quanti suoi amici erano partiti, quante persone aveva visto andare via dal paese… Ogni tanto riceveva una telefonata di qualche amico lontano e ogni volta, riabbassando la cornetta, ne sentiva la mancanza. Erano molti quelli che partivano e che ritornavano a casa soltanto poche volte all’anno, ma erano anche tanti quelli che, una volta partiti, ritornavano dopo pochi mesi…
Le mete dell’esodo erano sempre le stesse: l'Italia settentrionale, la Germania o l’Inghilterra. Spesso questi ragazzi lavoravano come lavapiatti oppure come pizzaioli; altri finivano a lavorare in fabbrica, costretti il più delle volte a turni ed orari massacranti. I salari erano sempre bassi (ma sempre più alti di quelli che, in nero, ricevevano in Sardegna) e raramente erano assicurati, non comparendo così su nessun libro paga. Temendo costantemente il licenziamento, erano costretti ad accettare ogni imposizione. Nonostante ciò, molti continuavano a restare lontani dalle loro case, dalle famiglie e dagli amici. Era innanzitutto la vergogna di ritornare al paese senza aver raggiunto nessun obiettivo che li spingeva a restare, oltre all’amara consapevolezza che sull’isola nessuna prospettiva di lavoro li attendeva e forse non li avrebbe mai attesi. La situazione non sembrava cambiare, al contrario, nell’ultimo periodo erano stati in tanti a decidere di partire.
Pietro notò che Salvatore era stato colpito dalle sue parole. Pensò così di portare il giovane collega nella costa ogliastrina, che distava una trentina di chilometri dal luogo in cui si trovavano. Salvatore seguì Pietro senza dire una parola, anche perché da tempo non s’avvicinava per una qualsiasi ragione al mare, che da quando era bambino aveva sempre amato. Il pensiero di poterne vedere i colori e risentirne il profumo gli sembrava una valida ragione per andare. Salì nuovamente in macchina, colmo di curiosità… Cosa aveva intenzione di mostrargli Pietro?